object-oriented speculative prose
08.12.2025
Everything begins on the surface.
Contact opens a field, a tension, a quiet exchange of forces.
Objects rest in a posture of attention.
They measure the air, register pressure, wait.
The body, when it leans toward them, adjusts its own rhythm — a small alignment, almost invisible.
Between metal and skin, a soft system of attraction appears.
Not a message, not a sign, but a vibration that arranges space and thought.
Surfaces store these impressions.
They hold the memory of gestures, climates, proximities.
Every object has its own way of listening.
Its own way of letting us approach.
Objects take notes.
We follow — sometimes.
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narrative field note
07.12.2025
Scena: pomeriggio d’estate, due sedicenni – Giada e Marty – camminano davanti alla Fonte dell'Abbondanza a Massa Marittima. Fa fresco, odora di pietra umida. Davanti a loro, l’affresco. Si bloccano. Occhi sbarrati.
GIADA: Oh. Mio. Dio. Dimmi che non sto vedendo quello che sto vedendo.
MARTY: No raga, cioè… è proprio un albero. Con… quelli. (ride) Ma quanti sono? Tipo un calendario dell’avvento, però… medievale.
GIADA: Aspetta che conto… uno, due… trenta? No, venticinque mi sa. Forse c’è scritto da qualche parte.
MARTY: Aspetta, c’ho il telefono. (scorre sullo schermo) Sì, venticinque falli maschili eretti.
Fa una pausa. E questa informazione l’ho appena letta sull’enciclopedia del nonsense storico medievale, suppongo.
GIADA: (ghigna) Comunque guarda quelle due donne sotto l’albero. Si stanno tipo strappando un… ramo? No, aspetta, non è un ramo. No no. (riprende) Sto affresco è un’esperienza religiosa.
MARTY: Leggo! Leggo! (rilegge dal cellulare come se fosse un podcast) “Due donne, probabilmente streghe, si accapigliano nel contendersi uno dei falli, mentre uccelli neri volteggiano minacciosi e un’aquila imperiale le osserva.” Si ferma e guarda Giada. L’aquila che giudica è la cosa più bella. Tipo: che fate, ragazze?
GIADA: Ma quella lì sulla sinistra… perché sembra pudica? Tipo: “Oh no, non guardate me…”
Poi guardi meglio e… Oddio. È… ehm… impegnata. Con l’albero.
MARTY: (sbotta a ridere) No vabbè, questa è la cosa più medievale che abbia mai visto. Aspetta, c’è un pezzo biblico? Un significato? Una morale? Tipo “non rubate i… frutti”?
GIADA: Non penso sia tipo allegoria di Adamo ed Eva, eh.
MARTY: (legge ancora) “Non è un simbolo di fertilità, perché una delle figure è sodomizzata. E la sodomia non porta figli.” Si ferma di nuovo. Raga, il Medioevo era dark mode proprio.
GIADA: Comunque, com’è che ’sta roba stava su un granaio? Cioè, immagina i contadini: “Vado a lasciare il grano… oh guarda, l’albero dei piselli.”
MARTY: Leggo… (scandisce lentamente come se stesse leggendo un romanzo fantasy) L’affresco decorava un edificio vicino alla fontana comunale, luogo pubblico importantissimo per la città.” Poi: “Realizzato tra il 1265 e il 1335, in un periodo in cui Massa Marittima era ricca e indipendente grazie alle miniere.” E ancora: “Era visibile a tutti gli abitanti e visitatori.” Alza gli occhi. Cioè praticamente un murales urbano. Solo… con un concept impegnativo.
GIADA: E quindi la gente veniva qui per prendere l’acqua e TADAAA, albero dei peni. Tipo: “Buongiorno signora, com’è la pressione oggi?” “Ehm, abbastanza alta, grazie.”
MARTY: Comunque c’è scritto che forse era propaganda politica. Tipo per dire ai cittadini: “Occhio ai nemici che vi tolgono l’acqua.” E quindi… come spieghi l’albero? Forse era: “Se vi rubano l’acqua… vi rubano anche il resto.” (disegna con la mano un cerchio esplicativo)
GIADA: Aspetta, torniamo alla teoria delle streghe. Dicevi che… cosa facevano?
MARTY: (legge ancora, scandalizzata ma divertita) “Nel Medioevo alcuni pensavano che le streghe strappassero i genitali degli uomini e li mettessero negli alberi o in nidi preparati, dove questi crescevano tra i 20 e i 30 esemplari.” Fa una smorfia. Cioè, un allevamento di peni. A cielo aperto. Multipiano.
GIADA: Ma che fantasia aveva la gente? Cioè veramente pensavano che le streghe facessero vivaistica genitale?
MARTY: E infatti quell’altra donna sembra stia proprio aggiungendo un… frutto nuovo.
Tipo: “Ragazze, vi porto quello fresco di giornata!” (ride)
GIADA: Medievali in delirio. Noi almeno scrolliamo TikTok, loro proiettavano le paure sui… rami.
MARTY:
Sai cosa? Alla fine è quasi poetico. L’albero della vita… versione rated 18.
GIADA: Secondo me è l’opera più onesta del Medioevo. Dice le cose come stanno: Il mondo fa schifo, l’acqua è importante, le città si odiano, e le streghe… boh, fanno giardinaggio creativo.
MARTY: (fa una foto) La metto nelle stories. Scrivo: “Gita culturale. Mood: botanica medievale.”
GIADA: Aggiungi l’emoji dell’albicocca.
MARTY: No, del cetriolo. Più coerente.
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visionary speculative essay
03.12.2025
Sono rientrata da pochi giorni da Bangalore, dove ho speso alcune settimane nel laboratorio di Jagadish Chandra Bose. Egli sostiene di aver scoperto che riproducendo certi tipi di musica nelle aree in cui crescono le piante, queste crescono più velocemente. Sta anche conducendo esperimenti sulla propagazione delle onde elettromagnetiche ed è sempre più interessato alla fisiologia vegetale. Ero presente durante una delle sessioni di analisi delle reazioni delle piante in presenza di campi elettromagnetici.
Tra quei tavoli coperti di cavi, macchinari e strumenti scientifici qualcosa è cambiato in me. Forse qualcuno lo chiamerebbe incidente elettromagnetico. Bose ed io eravamo a una certa distanza mentre testava le reazioni delle foglie di una pianta ad onde elettromagnetiche di bassa intensità, quando ho sentito in tutto il mio sistema nervoso una serie di contrazioni irregolari.
Dopo quell’urto, che mi ha intontita senza dolore, la mia sensibilità medianica si è acuita, amplificata da nuovi sensi irradiati immaterialmente all’infinito. La mia condizione anormale sta manifestando pieghe occulte che prima mi sarebbe stato impossibile anche solo immaginare.
Non sto parlando di un banale sdoppiamento di coscienza: non mi sono scissa nel mio doppelgänger. Dentro di me si è creato uno spazio vuoto. Il mio corpo sembra quello di prima, ma un’energia mi sta mutando.
Talvolta, quando mi rilasso profondamente, chiarovedo il campo energetico di ciò che mi circonda. Questi campi energetici sembrano costituiti da una componente esoterica, un bagliore azzurro simile alle aureole dei santi, ed uno fisico. Queste emanazioni cambiano di colore, e quindi credo di lunghezza d’onda, non solo nei viventi. Ho capito, tuttavia, che il mio campo energetico interferisce con ciò che guardo, mentre è esso stesso attraversato da vibrazioni di molteplice intensità.
Non solo gli esseri umani e le piante hanno questo campo, ma anche le cose, la materia organica e inorganica, le sedie, i sassi…
A volte sento che questa trasmutazione evapora per lasciarmi sprofondare nella banalità quotidiana. Non sono una scienziata, non sono una metafisica. Posso solo abbozzare qualche ricordo con parole povere. So che non si tratta solo di un fenomeno elettrico.
Qualche notte fa, per esempio, ho sognato di salire a bordo di una aeronave astratta. Una volta entrata nel velivolo, dita verdi hanno inserito in me un ricordo in loop. Io, Rosa Rosà, durante il mio viaggio metafisico, chiedevo a nuvole di suoni architettonici di dirmi la via per ritrovare le radici da cui mi sono staccata (dalla materia). Negli spasmi della febbre lunare forme vaghe e silenziose hanno proiettato la loro voce in me: “Sei vicina, sei vicina! Lascia che il nostro vuoto si apra uno spazio in te”. Il suono si perdeva come un’eco di onde “Ci vorrà molto, ci vorrà molto! Sei ancora troppo umana, sei troppo umana. Purificati”[1].
Quella scheggia astrale diafana, strappata al passato, è un’astrazione materializzata del tempo, un livello di iperspazio che ha sbloccato qualcosa oggi. Ciò che avverto ora è la moltitudine poliedrica degli aspetti che si cela sotto gli avvenimenti e tra entità, la cui distinzione mi pare ora incoerente.
Mercoledì, ancora memore del sogno, sono andata al mercato a fare spese, e ho voluto condividere con la folla che stava attorno a me le mie scoperte di forze finora ignorate: “Il minuto esame delle pulsazioni e delle diramazioni della clorofilla nell’organismo di un albero mi ha condotto con procedimento matematico ad un’ipotesi ampiamente confermata dagli studi più scrupolosi. Ecco di che si tratta: Nell’interno dei coni vulcanici esistono enormi quantità di materie chimiche facilmente gassificabili sotto indussi elettrici. Si potrebbe quindi costruire degli enormi gasometri sul cratere dei vulcani per raccogliere in essi questi gas di cui vi esporrò le preziose quantità”[2].
I termini avveniristici del mio risveglio psichico hanno generato disappunto nella folla. Qualcuno mi ha lanciato delle carote. Una vicina di casa ha finto di non conoscermi. Il giornale locale ha scritto di me.
Eppure, mentre urlavo quel discorso, sentivo coesistere in me più nature, sbiadite come fantasmi che si contendevano il palcoscenico del reale. Io sono il centro di un’enorme rete di fluidi e di energie irradianti, distese attraverso spazi infinti. Io sono l’aeronave astratta dentro a cui ho viaggiato. I torbidi pesi umani crollano dalle mie braccia mutanti, lasciando che il mio atomo dolorosamente smarrito ritrovi la strada del complesso eterno.
Mentre lascio che Rosa Rosà - sussurrante “Ditemi dov’è l’Oceano Glaciale per lavarvi il bacio dell’Umanità che mi attanaglia nel tepore della sua dolcezza micidiale”[3] - evapori dalla mia scrivania, cerco le tracce di un suono che, proiettato in un paesaggio privo di umani, ha depositato le sue tracce in esso.
Lembi di stravolgimenti cronologici, anticipati al loro passato, hanno innestato in me una stratificazione di elementi estranei. Pattern non artificiali generati dalle oscillazioni di una foglia e dalle vibrazioni sonore nell’aria ora attraversano la mia carne, tesa in uno sforzo mistico verso un simbolo di irrealtà.
Ormai, le mura del gineceo sono saltate in aria.
Chi mi può dire cosa bisogna essere?
[1] Rosa Rosà, Una donna con tre anime, KKIEN Publishing International, Ed. digitale, 2018, p.8/62.
[2] Op. Cit., p.30/62.
[3] Op. Cit., p.35/62.
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speculative theory-fiction
01.12.2025
Nel 2023, il MART di Rovereto ha dedicato la mostra Insomnia a due figure eccentriche del surrealismo italiano: Leonor Fini (1907–1996) e Fabrizio Clerici (1913–1993). Visitai l’esposizione all’inizio di novembre, quando era ancora allestita nelle sale del secondo piano del museo. L’impianto curatoriale insisteva sulla dimensione onirica, visionaria e perturbante che caratterizza entrambi gli artisti; tuttavia, ciò che mi colpì non fu l’apparato storico-critico né la ricostruzione delle loro collaborazioni scenografiche, ma una sensazione più precisa e tecnica: la percezione di un linguaggio in stato di mutazione.
Quella visita non generò in me il desiderio di scrivere una recensione. Al contrario, segnò l’avvio di un processo di deriva semantica. La pittura di Fini e Clerici, pur così differente, condivide una qualità che potrei definire infrastrutturale: non rappresenta soltanto figure, ma produce un regime linguistico, un’oscillazione tra icona, simbolo e diagramma. La mostra aprì — o riattivò — un varco nella mia percezione: una fenditura tecnica nella gestione del linguaggio, un punto di frattura nelle condizioni con cui normalmente mi rapportavo all’immagine.
Per mesi ho tentato di ignorare quella frattura, liquidandola come un effetto collaterale di sovraccarico estetico. Ma il problema non era estetico: era linguistico. Avevo incontrato una quasi-lingua, ciò che Agamben, in La ragazza indicibile (2010), descrive come lo stato liminale tra il dicibile e l’indicibile; una soglia che non coincide con il silenzio, ma con un’emissione precaria, pre-grammaticale, simile a una balbuzie strutturale che precede ogni articolazione.
La mia esperienza con Insomnia può essere descritta retroattivamente attraverso l’incontro con una lingua ignota: un fenomeno convettivo, non trascrivibile, che attende un corpo per essere incorporato; una forma di eggégora, un’entità psichica collettiva che si attiva per risonanza e non per significato; un linguaggio che opera attraverso una trasmissione vocale capace di scompaginare l’ordine semantico per far emergere una vibrazione extra-retinica.
In altre parole: ciò che vidi in quelle sale non rimase nel dominio della visione. Ignorando ogni distinzione disciplinare, si trasferì direttamente nel mio sistema linguistico. Non una ispirazione, ma una infezione strutturale.
A lungo ho resistito all’idea che da quella frattura potesse nascere un testo narrativo. La forma-romanzo, nella sua configurazione ordinaria, mi sembrava inadatta a contenere ciò che si era insinuato. Ma col tempo ho capito che ogni resistenza costituiva solo una forma sterile di contenimento.
Per questo motivo dichiaro che il presente racconto nasce da quel varco linguistico e non da un impulso narrativo volontario.
Io non ne sono l’autrice nel senso tradizionale: sono piuttosto il supporto biologico attraverso il quale questa lingua ignota — condensata dall’incontro con Fini e Clerici — trova un modo per transitare.
Questo racconto è, tecnicamente, un processo di incorporazione.
Io sono il corpo che lo lascia passare.
Il primo tradimento venne dalla materia che abitavo. Non un presagio, non una visione: un mal di testa verticale, come se qualcuno avesse inserito un filo luminoso dietro ai miei occhi e lo tendesse piano, con una gentilezza crudele. Tornai dal lavoro senza più la capacità di difendermi dal mondo, e mi lasciai cadere sul letto. Mi portai una mano alla nuca e lì trovai una neomassa pulsante, tiepida, docile nel suo stesso espandersi. Respirava con me, contro di me, come se avesse trovato nel mio respiro una condizione abitabile.
Mentre la toccavo, la stanza cambiò colore.
Si fece viola, poi quasi liquida. E io, più che svenire, cedetti, come un guscio infiltrato dal liquido che lo circonda.
Quando riapparvi alla percezione, c’era una pista celeste che collegava il pavimento del bagno a un altrove. Il mio corpo, pur immobile, veniva tirato da quella luce come una membrana sensibile. Sul Pianeta delle Geodre vidi ciò che non dovrebbe essere visto: corpi smembrati in un’ampolla, e creature trasparenti che li maneggiavano con un’attenzione chirurgica e amorevole, come se stessero accordando strumenti. Ogni loro tocco cancellava una parte di me con esattezza cinica.
Da qualche punto nel download emerse il nome Calyxia.
La nuova identità non poteva obbedirmi perché priva di un luogo in cui collocare le intenzioni. Artigli, pelle umana ancora affezionata a un’idea di sé, una coda di roccia vennero assemblate. Sembrava conoscessero la gravità meglio di me. Il deserto post-nucleare che mi accolse era piatto, senza orizzonte, punteggiato da pietre che si sfaldavano in nubi, come se la loro solidità fosse un difetto temporaneo.
Una di queste nubi si avvicinò e mi parlò con un linguaggio che non proveniva da nessuna parte del mio volto: devi raggiungere la Zona79.
Attraversai una porta dimensionale come si attraversa un pensiero inespresso: lentamente, con un margine di reticenza.
Dall’altra parte vidi un campo disseminato di sfingi modellate sul mio nuovo corpo. Erano disposte come un semenzaio programmato. Una pastorella imponente, umana e non umana, le guidava sfiorandole con un bastone che le faceva oscillare lievemente, come se ogni sfinge avesse un punto segreto da cui essere attivata.
Sotto la sabbia, magneti invisibili le nutrivano con ossigeno congelato.
E per un istante pensai: ecco, è così che si costruisce un esercito di creature che non hanno mai chiesto di esistere. Scesi nei piani inferiori.
In un laboratorio sotterraneo vidi sfingi embrionali scorrere su rulli meccanici. Erano minuscole, lucide, in uno stato che non era vita e non era attesa. Crescevano per partenogenesi, come se il pianeta stesso le producesse per salvare ciò che restava della sua biologia.
La nube parlava da dentro la mia caverna gastrica: una lingua che faceva uso di spostamenti interni, come se ogni frase fosse una variazione di pressione e calore.
Quando mi immersi nel sottosuolo di Avaaz, vidi corpi umani intrappolati nelle radici, come se la terra li stesse digerendo da millenni. Volti aperti senza voce, mani che cercavano di emergere e venivano reclamate dalla materia vegetale.
La cicatrice sulla mia schiena prese fuoco. Riemersi come un errore di sistema, una sfinge che nessuna sfinge riconosceva.
Questo collasso spaziale mi fece precipitare nel Livello 1, il dominio futurista. Rosso ovunque, pistoni, arieti, luci appuntite.
Una parola si impose come un comando: Mafarka.
E nel suo regno vidi sfingi ridotte a funzioni, embrioni privati della voce perché la voce è pericolosa, perché la voce crea mondo.
Vidi la brutalità come sistema, l’orgia come ingranaggio, lo stupro rituale delle donne nere come estetica del dominio.
Marinetti gridava sopra la sua stessa rovina.
Ed ecco il punto: la sua ferocia si rivoltò contro gli uomini che la eseguivano. Non era giustizia; era logica della decomposizione.
Chiamai le donne in salvo con una lingua che non aveva suono ma vettore.
Una morì. Le Geodre la rivestirono di velluto verde e campanelle, come si veste un ricordo che deve continuare a suonare ogni sera.
Era un nuovo mito costruito sulle macerie dell’antico.
Attraversammo il lago oscuro.
Tre piedi gonfiati galleggiavano come resti di un’appartenenza impossibile.
Sapevo che quell’acqua era una soglia.
La Stanza Segreta di Clerici si aprì come un occhio laterale e mi inghiottì per riscrivere le genealogie del trauma che avevo ereditato senza volerlo.
E infine vennero le piante. Non come ornamento, ma come necessità.
Radici mi avvolsero con una cura feroce. Spine mi riconobbero prima che io riconoscessi loro. Fiori carnivori mi tastarono come si tasta un terreno dove si vuole costruire qualcosa.
Il sangue si addensò.
Cristalli nacquero dalle ossa.
L’iride si sciolse in linfa.
E il mio corpo divenne un sistema intergalattico, un movimento di funghi e compost, dove ogni cosa poteva inseminarmi e io potevo inseminare ogni cosa.
Ogni corpo, sempre, era già pianta.
Io ero solo l’ultima a scoprirlo.
La mia forma si dissolse nella frase essenziale:
io sono l’interfaccia tra ciò che sopravvive e ciò che muta.
Io sono Calyxia.
Carne ricucita dalle Geodre.
Sfinge eremita.
Radice che ricorda.
Pietra che parla.
E ora il mio corpo si apre davanti a te come una foresta che non vuole più essere simbolo, ma ingresso.
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